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Il Manifesto della Polipoesia
Enzo Minarelli Proveremo dopo venti anni dalla sua prima pubblicazione (Valencia, 1987), a ridiscutere i punti del Manifesto (1). Le motivazioni che allora ci spinsero a teorizzare la performance di poesia sonora, esistono tuttora, intatte. Nessuno si era, ma è così anche oggi, preoccupato di fare ordine su questa materia che continua ad essere praticata e diffusa in meeting e festival internazionali. Purtroppo, nonostante un simile sviluppo, non si intravedono nuove leve, nuove generazioni di poeti sonori capaci di raccogliere il testimone, perché oggi pare che solo la iper-tecnologia più spinta e la violenza contro il corpo, trasfigurato attraverso la manipolazione genetica, siano le uniche piste di ricerca artistica. La nostra ipotesi poggiava sul presupposto che il performer di poesia sonora non sempre avesse la consapevolezza di quello che stava praticando. E questa impressione la conserviamo anche ora. Essere coscienti in poesia sonora significa la capacità progettuale di organizzare attorno alla voce, al nucleo della sperimentazione sonora, una serie di interventi coinvolgenti gli altri media, senza per questo debordare nella performance d'arte, nel teatro sperimentale, nella musica concreta o scadere nella lettura di poesia. Si necessitava e si necessita in polipoesia di un elevato tasso di lucidità, una presenza cosciente per orchestrare tale molteplicità di interventi. 1 "Solamente lo sviluppo delle nuove tecnologie segnerà il progredire della poesia sonora: i media elettronici e il computer sono e saranno i veri protagonisti." Questa è stata una facile, scontata profezia. Mentre per gli Anni Cinquanta la reale commercializzazione del magnetofono almeno nell'area del vecchio continente (2) ha fatto sentire la sua profonda influenza nel passaggio dalla poesia fonetica alla poesia sonora, operando una trasformazione dal tipico approccio lettrista alla dimensione più spaziale, elettromagnetica del suono, altrettanto non si può dire dopo l'irruzione del computer nella scena artistica sul finire degli Anni Ottanta. I tempi di realizzazione dei poemi si sono accorciati, è molto più semplice applicare gli effetti, controllare le onde sonore. Ma il prodotto non ha subìto un'impennata sia dal punto di vista strutturale che contenutistico. Stiamo lamentando che il travolgente, previsto boom informatico di fine secolo non ha provocato la conseguente ondata di nuova poesia sonora. Chi ha da sempre usato la tecnologia al servizio del poema, la continua ad usare in modo più sofisticato, vedi Larry Wendt, Charles Amirkhanian, o Sten Hanson. In questo contesto si potrebbe anche citare di nuovo l'estrema coerenza tecnologica di un Henri Chopin che da almeno un trentennio ripropone i suoi stilemi rarefatti, ai limiti estremi del rumorismo fonetico. Altri poeti che prima non osavano entrare in studi di registrazione iper-elettronici, adesso si son fatti coraggio e prendono a schiacciare il mouse per cliccare la selezione della loro voce visualizzata sullo schermo. Fermo restando il fondamentale apporto della tecnologia alla causa della poesia sonora, siamo convinti ancora che questa sia l'arma vincente in nome della quale il poeta sonoro ha il dovere assoluto non solo di non farsi trovare impreparato davanti al rapido evolversi tecnologico ma anche di sperimentare il nuovo mezzo in funzione del poema; concepirne la creazione anche dietro la sua suggestione e grazie al suo nuovo apporto. Se dovessimo indicare un rischio in questo incombente e irreversibile processo di computerizzazione in atto non solo in poesia ma nella società intera, consiglieremmo di non restare succubi di software che altri hanno inventato e perfezionato. Evitare a tutti i costi quel clima da libertà vigilata dove apparentemente possiamo far tutto, e in realtà non facciamo niente, o meglio facciamo quello che gli altri ci permettono di fare. Ecco perché apprezziamo quei poeti ricercatori che creano ex novo i loro software, Tibor Papp, Jacques Donguy, Eduardo Kac, Fabio Doctorovich, o coloro che piegano le asprezze di un programma ai loro voleri, sfruttandolo in modo originale come Mark Sutherland, Philadelpho Menezes, Takei Yoshimichi. Infine, va spesa una parola per le autostrade virtuali della rete che a nostro avviso, già lo si è scritto, non sono ancora sfruttabilii ad alto livello creativo per produrre poesia sonora. Internet assomiglia ad un sistema più per diffondere che per creare. La nostra è una presa di posizione dall'interno, in quanto siamo, un po' otaku, almeno nel senso cyber della parola (3). Accaniti web-surfer e web-user, abbiamo costruito e installato, tra i primi, un ampio sito Archivio 3ViTre di Polipoesia (4), che nel giro di tre anni (1997-2000) è stato visitato più di seimila volte. Un nulla se paragonato con i potenti siti commerciali, considerato altresì che stiamo diffondendo, anche difendendo, un oscuro oggetto, la nostra continua visibilità nel circuito ci rincuora e rafforza. Urge questa esistenza virtuale, anzi esistiamo solo se esistiamo nella rete (5). Il mondo si è improvvisamente rimpicciolito, o forse ingrandito a dismisura, al punto che non possiamo più distinguere ciò che è reale da quello che è virtuale, e viceversa. Di fatto, il local che era la nostra dimensione base della quotidianità, è divenuto in un batter d'occhio global grazie al know-how tecnologico, e questo nuovo stato di glocal ci affascina, ci attira inevitabilmente, ma ci lascia col fiato sospeso. 2 "L'oggetto lingua deve essere sempre più indagato nei suoi minimi e massimi segmenti: la parola, elemento base della comunicazione sonora, assume i connotati di multiparola, penetrata al suo interno e ricucita al suo esterno. La parola deve poter liberare le sue polivalenti sonorità." Affrontiamo l'annosa questione del termine poesia, già anticipata, e, speriamo, definitivamente risolta. Poiché il materiale di base è la lingua ci si è sempre attestati, per convenzione, dentro la definizione di poesia sonora. Non ci sarebbe nessuna sorpresa se il termine poesia fosse destinato a scomparire, anche se, lo ribadiamo, togliere questa specificità ci dispiacerebbe, perché connota immediatamente, forse con un po' di ambiguità e falsa aspettativa, data la consolidata diffusione del termine in oggetto. Abbandonarsi però, nel mare magnum delle arti, vorrebbe dire godere degli indubbi vantaggi di riconoscibilità che la definizione di arte comporta, a scapito di un netto abbassamento della soglia di identità settoriale, la specificità dell'essere, appunto, poeti. Sappiamo che la nostra missione va compiuta sempre e comunque nel linguaggio veicolato dalla voce nella duplice accezione di oralità e vocalità. Si concentra tutta la ricerca della poesia sonora, in questo binomio. Un dialogismo che ne trascina altri quali significato-significante, vale a dire l'oralità sta al significato come la vocalità sta al significante. Ancora, l'oralità sta alla catena morfo-sintattica come la vocalità sta al rumorismo fonetico. I connotati di multiparola assumono valenze fondamentali, almeno a livello strutturale si ha un riscontro diretto di quella geniale intuizione che è stata la parola-valigia (portmanteau) introdotta nella seconda metà dell'Ottocento da Lewis Carroll, successivamente elaborata e spinta ai suoi estremi limiti di praticabilità dallo sperimentalismo joyciano. Ambo le piste, però, restavano confinate nell'alveo della pagina scritta, mentre ciò che rende subito riconoscbile la multiparola è la sua esplosione in chiave vocorale, il suo utilizzo a viva voce. Per esempio, dopo le grandi stagioni del rumorismo degli Anni Ottanta, dove il linguaggio veniva sviscerato vocalmente, si è giunti con i primi Anni Novanta, al recupero della integralità della parola. Una parola vocorale capace di sprigionare ancora quella polivalente energia repressa a livello di scrittura; energia che fuoriesce sia sotto forma di fonema, soprattutto attraverso tecniche permutazionali o di riduzionismo, oppure sotto forma di sequenza asintattica di parole pur svolte nella loro dimensione tradizionale. Ciò vanifica l'atto del parlare, lo rende inutile nella sua banalità quotidiana, in più richiede una ginnastica mentale in sede di ricezione, l'attenzione viene trainata verso la nudità ricca del segno linguistico, così rafforzato, rinvigorito da nuova linfa verbale. La parola deve divenire davvero multiparola, rompere la staticità dell'equilibrio scritto, esasperare il decoro del senso unico e muoversi su più piani direzionabili, accumulando schegge di sillabe o fonemi provenienti da altre parole; creare le premesse per agganci di molteplici significati, e quindi per una sua piena espansione anche relazionata ad altri media. "L'enorme lavoro sulla parola ha come fine ultimo il superamento della parola. Ci si libera della lingua nella sua determinatezza linguistica, non attraverso la sua negazione, ma mediante il suo perfezionamento immanente". (6) In questa direzione operano interessanti poeti quali Clemente Padin, Chris Mann, Amanda Stewart, Julien Blaine, Serge Pey, Bernard Heidsieck, Bartolomè Ferrando, David Moss, Anna Homler, Josef Riedl, Ide Hintze, Philippe Castellin. 3 "L'elaborazione del suono non ammette limiti, deve essere spinta fin oltre la soglia del puro rumorismo, un rumorismo significante: l'ambiguità sonora sia linguistica che vocale, ha senso se sfrutta a pieno l'apparato strumentale della bocca". Lo strumento principe è la bocca, correlata con tutti i suoi anatomici attributi, quindi è altrettanto evidente che il suo flusso sia vocorale. Da questo punto di vista, la vecchia intuizione lettrista, e prim'ancora dadaista e futurista si riconferma vincente. La novità consiste nel non porre limiti all'espansione del suono. Al tanto amato linguaggio, tanto amato da distruggerlo, viene inflitta una tortura strutturale sotto l'inesauribile spinta dell'amore-odio. Bersaglio dichiarato altro non è che la sclerotizzata concezione della sonorità tradizionale. Il poeta sonoro travalicandone ogni regola, impone l'arroganza del proprio piacere estetico perseguito a oltranza, una trasposizione, in pratica, delle teorie di De Sade sul piano fonetico, vittima designata il linguaggio alla mercè del poeta-carnefice. Esattamente questo è avvenuto in un personaggio unico nel suo genere, Demetrio Stratos, dal quale lo strumento-bocca è stato impiegato, se non sfruttato a livelli umanamente impossibili. Ne derivavano rarefazioni sonore, virtuosismi vocalici che avevano sconfitto anche la resistenza del corpo stesso. Lo scopo era sfondare quel muro che separa ciò che era possibile da ciò che non era possibile fare con la voce, si riascoltino le Investigazioni (diplofonie e triplofonie del 1978). Il suo sperimentalismo, avendo soppresso ogni controllo della ragione, si dipanava a briglia sciolta, l'ugola collegata all'anima, atto rumorico, istintivo, radicato e attinto da dentro lo strato più profondo dell'io, né più né meno, per svolgere un parallelo letterario, come era accaduto per la scrittura automatica, prima a Lautrémont, poi ai poeti Surrealisti. Lungo questa corsia di cui Stratos è il capofila, si incontrano altri degni eredi, forse non dotati come l'artista greco-milanese, ma pur sempre onorevolmente travolgenti sulla ribalta, Jaap Blonk, Valeri Scherstjanoi, Brenda Hutchinson, Miroslaw Rajkowski, Christian Prigent, Giuliano Zosi, Katalin Ladik, Nobuo Kubota, Makigami Koichi, Paul Dutton e Américo Rodrigues. Un discorso a parte merita Sainkho, artista della Repubblica di Tuva, ma di residenza viennese, che si è imposta di recente esibendosi in festival internazionali grazie alle sue indubbie e valenti doti canore. La sua opera si presenta sgravata da inutili orpelli di significato, si sente pertanto autorizzata a spaziare gorgheggiando libera da ogni vincolo contenutistico, dando fondo a tutta la casistica del suo repertorio virtuosistico, in verità strabiliante, soprattutto nei toni alti e nel vibrato ugolare. Ma, a giudicare dai lavori incisi in Naked spirit, un CD del 1998, prodotto a Firenze per la Amiata Records, noi avvertiamo che manca quella tensione intellettuale, quella corposità ideologica così viva in Stratos. La stupefacente cascata di vocalizzi del primo ascolto si trasforma in un assuefatto canone ripetitivo, alquanto artificiale, che se fosse almeno ancorato nel suo humus antropologico, potrebbe rivitalizzarsi e mantenersi costante in quota. Per constatare l'evanescenza di una Sainkho, basta accostarle un'altra figura di donna, quella di Diamanda Galás, di ben altro spessore carismatico, pensiamo alla Galás prima maniera, a quella vetta assoluta rappresentata da Plague Mass, (un CD del 1984) dove, satanismo nel senso di opposizione e accusa, sposato ad una intelligente sperimentazione vocorale a tutto campo, formano un inossidabile connubio. A differenza di Sainkho più dedita all'acuto, Galás anche per una intrinseca qualità timbrica della sua voce, agisce sui toni bassi, la sua voce in filigrana richiama le caverne ancestrali, e ci fa accapponare la pelle. L'estremizzazione del suono vocorale può essere altresì raggiunta facendo leva sulla sonologia computazionale. Meglio sempre iniziare dal tratto naturale della voce, voce che esce concretamente dalla bocca, e non con quell'aura d'artificialità che le viene appioppata da un software. L'approccio elettronico porta la voce a non riconoscersi più, parte come oralità e arriva come vocalità, era parola e diviene brandello sonoro, attraverso varie fasi di trituramento fonetico, quindi, rumorismo. Un caparbio attentato di destrutturazione del codice sonoro, via via filtrando e progressivamente assottigliando lo spessore del denotato, fino a ridurlo a massa informe o deforme, non spendibile al tavolo della trattativa comunicazionale. Oggi questa soglia di demarcazione tra riconoscibilità-irriconoscibilità, viene continuamente varcata grazie a potenti programmi, e considerato che il progresso tecnologico frantuma record dopo record, abbiamo smesso di stupirci davanti alle continue sorprese. Ci auguriamo solo che il poeta sonoro non debba rincorrere la chimera dell'ultima invenzione, perché la rampa di lancio tecnologica non lo farebbe più decollare. Il suo compito consiste nel non mostrarsi troppo succube, avvicinarsi al fuoco, ammirandolo ma senza scottarsi. Ecco perché centrale resta la forza del progetto, la garanzia della consapevolezza del fare. Ritorna con insistenza lo statuto della coscienza come schema creativo. Arrivati a questo punto ci preme svolgere un parallelismo socio-poetico tra poesia sonora e urbanistica. Ci sia permesso di scrivere, come premessa e non senza una buona dose di tristezza, che la sonorità dei centri metropolitani assomiglia sempre di più a una ricca discarica di rumore, di rumore bianco (7), tanta è la confusione che i segnali captati non si fanno riconoscere né come suoni né come rumori. E il pubblico, oramai assuefatto a tale accozzaglia, rovinato da questo logorìo quotidiano e quindi trasformato nei suoi gusti da anni di guerriglia urbano-sonora, si identifica meglio in quei poemi che ne ripropongono siffatte distorsioni. Così si spiega perché, alcuni poemi sonori di Henri Chopin, di Bob Cobbing, del tedesco Claus o anche i Crirythmes di un Dûfrene abbiano incontrato tanto successo. Hanno semplicemente dato al pubblico sotto forma di poesia sonora, quanto c'era già nella società. E questa suona anche come risposta, paradossale fin che si vuole, a coloro che accusavano la poesia sonora di essere avulsa dal contesto sociale. La misura non è ancora colma. Oggi il tratto rumorico in calando nel circuito internazionale dei festival di poesia sonora, incontra un improvviso boom in terra nipponica. Spuntano a Tokyo personaggi come Akita Masami che compilano CD interi di 73 minuti e 23 secondi (Rainbow electronics) con seghe elettriche applicate su metallo, fischi, cigolii, trapani, ben oltre le trovate di un Francesco Russolo che impallidiscono al confronto, senza considerare le vere sventagliate di rumore bianco, a ripetizione. Rumore bianco su rumore bianco. Ascoltando questi brani si perde la percezione del sè e della memoria, e il dolore si trasforma in piacere, nirvana rumorico. "Il rumore è fortissimo, - dice Hino Myuko - annulla ogni cosa, ma se ti lasci andare, avviene una stimolazione delle endorfine e il tuo corpo scopre nuove sensazioni" (8). "Il rumore è usato come nuovo parametro della sensibilità ed ha il potere di richiamarci immediatamente alla vita" continua ancora Masami (9). Per Haino Keiji si tratta invece di usare un rumorismo psichedelico alternato con mormorii, sospiri, urla, unica concessione alla vocalità. Per quella generazione di poeti sonori che sin dagli Anni Ottanta ha fatto esperienze di rumorismo fonetico, è un piacere leggere definizioni del tipo, pornoise (pornorumore) o terroristi sonici i quali si dichiarano pronti a eseguire concerti dove nessuno si preoccupa di andare a tempo con nessuno, in un'atmosfera anarcoide-musicale, dove il termine musica non ha più senso e si finisce per instaurare la dittatura del rumore. 4 "Il recupero della sensibilità del tempo (il minuto, il secondo) al di fuori dei canoni dell'armonia e della disarmonia, perché solo il montaggio è il giusto parametro di sintesi ed equilibrio". Parafrasando una famosa frase di Gisèle Brelet, l'essenza della poesia sonora è la sua forma temporale, la forma è reale soltanto quando corrisponde ad una esperienza temporale nel creatore. Questo punto è talmente importante da sancire il successo o l'insuccesso di un poema sonoro. Non a caso parlavano di minuti e anche di secondi. Vorremmo sempre sapere perché un poema dura x minuti e non y minuti. Questa affermazione è direttamente figlia di quella che segnalava la preminenza del progetto e della sua consapevolezza. Significa che il poeta sonoro quando crea tiene sotto controllo tutti gli elementi costitutivi, ne domina l'uso, al fine di ottenerne gli effetti desiderati. A volte succede che le performance vengano predisposte considerando il tempo come protagonista, assegnandogli una valenza significante, come nel caso di Gerard Rhum, artista storico del Wiener Gruppe, del catalano Josè Calleja e della colombiana Maria Teresa Hincapie. Intendiamo ribadire che il tempo scenico-performativo è un tempo assai diverso da quello ricettivo del pubblico. Quindi il tempo della performance deve essere coerentemente sostenuto dalla necessità strutturale del poema stesso. Non stiamo indicando un tempo pieno, nel senso di un qualcosa che debba obbligatoriamente accadere, stiamo parlando di un tempo giustificato, coerente con lo scopo prefisso. Kirstern Justesen in Ice Walk, una performance realizzata a Copenhagen nel 1992, esibiva grossi cubi di ghiaccio che ragionevolmente dentro un determinato periodo di tempo avrebbero dovuto sciogliersi scandendo i ritmi temporali del suo intervento. Questo è un esempio base. Sulla questione tempo si sono impegnati alcuni artisti Fluxus come Dick Higgins, Allan Kaprow, Alison Knowles, Eric Andersen, Charles Dreyfus, anche se l'aspetto sonoro a volte denunciava inaspettate carenze che venivano ampiamente colmate da un calibrato e sapiente uso della temporalità. Non abbiamo mai creduto che l'approccio migliore ad una performance che avesse nel tempo la sua caratteristica peculiare, potesse essere eseguito in una unica entità, in un unico blocco, senza fare ricorso al montaggio, al cosiddetto taglio del nastro. Il ricorso a tale metodo risulta indispensabile se si vuole imprimere al poema sonoro un minimo di sviluppo. L'articolazione strutturale complessa può essere ottenuta attraverso la tecnica del montaggio che permette di isolare un suono, trasporlo altrove, in modo tale che quello stesso suono, oltre al suo significato originale, ne acquisti uno nuovo che gli viene dal secondo contesto in cui, arbitrariamente, è stato inserito. Oggi il montaggio di una brano orale, grazie alla semplicità dei software sulla voce, può essere fatto rapidamente sullo schermo del computer, mentre fino a tutti gli Anni Ottanta, bisognava fisicamente tagliare il nastro incollandone le due estremità. Dal bricolage al computer. Questa semplificazione delle procedure non ha tuttavia provocato un miglior uso del montaggio, a riprova ancora una volta del fatto che non è lo sviluppo tecnologico a infondere qualità al poema. Poeti come Bernard Heidsieck, John Giorno, Fernando Millán, Gianni Emilio Simonetti e il compianto Joan Brossa (10), soprattutto nel suo teatro Strip-tease, dominano la componente tempo durante l'atto creativo, concepimento con montaggio incorporato. Il taglio resta un passaggio obbligato per una organica sistemazione del materiale poetico. Accanto a questa pratica deve essere posto l'utilizzo di molteplici piste per incidere la voce o quanto necessario. Si tratta del multiplay che accumula per sovrapposizioni una o piu piste d'incisione come se il poema fosse un madrigale elettronico. Da notare la netta differenza col montaggio che avvicina ciò che è distante o separa ciò che è vicino. Sono soluzioni tecniche diverse per impostazione ma sotto il profilo concettuale puntano verso la medesima direzione: razionalizzare il tempo giustificato, gestire il tempo pieno, impiegandolo consapevolmente. Ci sono poeti, infine, che pur senza far sfoggio di grandi teorie sul tempo, ignorando le potenzialità tecnologiche, agiscono secondo un montaggio mentale, cerebrovocorale, in quanto durante l'atto performativo, sentono tanto il peso del tempo, al punto che il loro corpo si carica come le lancette dell'orologio per scandire esso stesso il tempo che passa. Esempi di questo lavoro corporale-temporale sono ben visibili in Llorenç Barber, Josè Iges, Pierre Andè Arcand, Serge Pey e Américo Rodrigues. 5 "La lingua è ritmo, i valori tonali sono reali vettori di significato: prima l'atto di razionalità, poi l'atto di emotività". Questo è il punto che determina il primato della vocoralità sulla scrittura, il tono significante sulla struttura morfo-sintattica portatrice di senso. Demetrio Stratos usava dire "il ritmo sviluppa l'elevazione della coscienza fisiologica " (11), rendendo alla perfezione quel tratto sacrale-universale che la voce possiede nelle sue evoluzioni ritmiche. La lingua, intesa come organo anatomico, è paragonabile a un dito, a un braccio, al pene, e imitandoli, produce moti sonori dotati di una loro forza e di un impatto su chi ascolta. La voce si propone di petto, di testa, di diaframma, ma ciò che conta è il modulo ritmico dentro il quale viene articolata e allora diventa oggetto contundente, carezza suasiva. Il ritmo va deciso consapevolmente perché esso nasce dentro il corpo del performer. Ritmo significante perché ritma il corpo del poeta, del quale la voce è protuberanza visibile, come nei geroglifici egiziani, essa veniva visivamente rappresentata da una entità concreta, materialità vocalica. Possedere il ritmo del poema, significa averne le coordinate prossemiche. I poeti sonori validi posseggono questa dote. Citiamo ancora Chris Mann e Amanda Stewart, poi Allan Vizents, Richard Kostelanetz, Carlos Estevez, Rod Summers, Dmitry Bulatov, Rosaria Lo Russo, Valeri Scherstjanoi, Vladan Radovanovic. Scegliere il ritmo giusto in maniera oculata, mai affidarsi all'improvvisazione da palcoscenico. Per articolare questa affermazione, prendiamo a prestito un'arguta argomentazione di John Cage, "se tu sei non-intenzionale allora tutto è permesso, se sei intenzionale, allora tutto non è permesso" (12) per riaffermare come l'intenzionalità stia alla base di una specifica decisione. Il poeta sonoro non sta facendo una jazz session, con tutto il rispetto che nutriamo per l'assetto democratico di questa pratica musicale, sta performando il suo polipoema. Ci attestiamo pertanto al polo opposto dell'improvvisazione perché ci piace fare un passo dopo l'altro, sapendo dove si mettono i piedi, tanto consapevoli di questa certezza che l'estenderemo come una ventata di razionalità a tutta la struttura del poema. "Il vero è l'intero" (13), solamente ponendosi di fronte al tutto, si raggiunge la verità. Il nostro tutto comporta la tipologia polipoetica, il che equivale al dialogo della voce aperto sul mondo dei media, al di là della totalità del corpo (mente, pensiero, cuore). L'atto polipoetico si fonda su una strumentazione razionale per enucleare la propria verità. La esige, al di là del guizzo intuitivo pur necessario ai fini creativi. Ogni unità comporta un obiettivo, dei preparativi per una destinazione perché sottende a un telos logico. L'uso della ragione ci prospetta un territorio desisamente reale, concreto al punto da assegnare, pieno diritto di razionalità alla realtà e viceversa (14). Una realtà, in conclusione, affrontata attraverso un percorso di netta marca socratica, per nulla dionisiaca, volendo riprendere note categorie nicciane. 6 "La Polipoesia è concepita e realizzata per lo spettacolo dal vivo, si affida alla poesia sonora come prima donna o punto di partenza per rapportarsi con la musicalità (accompagnamento, linea ritmica), la mimica, il gesto, la danza (interpretazione, ampliamento, integrazione del poema sonoro), l'immagine (televisiva, diapositiva, come associazione, spiegazione, ridondanza, alternativa), la luce, lo spazio, i costumi, gli oggetti." Trascriviamo una breve citazione sul Lied prima di affrontare il sesto e ultimo punto, forse il più incisivo. "Ciò che nel Lied si fonde, (il corsivo è nostro) non è la musica e la poesia quali entità astratte, quanto una parola e una melodia che si muovono intorno ad una soggettività perduta ..." (15). Perché evidenziare in italico il verbo fondersi? Per ricordare che tutta la produzione performativa partendo dai primi del secolo con le avanguardie storiche (Futurismo, Dada) sino al recente intermedia, passando per il Lettrismo da Artaud fino a Paul de Vree, ha sempre operato per diverse gradazioni di fusione, mescolando i media coinvolti, miscelandoli fino al punto che ne venivano dispersi i loro tratti peculiari per acquisirne di nuovi. Ci pare che quanto detto trovi la sua esatta corrispondenza nel concetto di ibridazione introdotto dallo studioso canadese McLuhan (16). Riteniamo che la polipoesia, se non ha i crismi ambiziosi di una nuova teoria, ha la pretesa di voler chiarire meglio l'atto performativo. E' nata espressamente per essere eseguita davanti ad un pubblico, lo necessita, lo esige, in questo è dialogica, e pretende un pubblico attivo, aperto, interattivo. La polipoesia, in pratica, non compie né fusioni né ibridazioni, essendo più una presentazione che una rappresentazione. Innalza il ruolo di protagonista spettante alla vocoralità, asse portante della poesia sonora, capace di reggere il dialogo con gli altri media, senza perdere né diluire il proprio specifico. Quantificato in percentuale, il 60 % del prodotto polipoetico spetta alla vocoralità, il resto agli altri elementi messi in atto. Poiché tale rapporto dialogico, (poesia sonora-vocoralità verso media), deve essere condotto in modo rigoroso, ci serviremo della phrónesis (17) come prassi per dimostrare quanto la via della razionalità debba essere battuta con accanimento e perseveranza. Ci ha molto intrigato questo ideale pratico della phrónesis, da intendersi senz'ombra di dubbio nel senso aristotelico di saggezza, corretta applicazione di un progetto, di un piano ben articolato, di un sapere orientato verso la realtà. Phrónesis, anche sinonimo di sapienza forzandone un po' il significato, scremandola però dalla connotazione moralistica che pur era già tangibile nello stesso Aristotele. Convinti da questo sapere pratico, diretto verso una situazione concreta, in grado sempre di scegliere il giusto mezzo per il giusto fine, di cogliere il senso delle circostanze, degli eventi, lo adottiamo come panacea polipoetica, capace di trarre sempre d'impaccio davanti alle difficoltà dell'intreccio, e soprattutto agile nel distinguere ciò che è conveniente da quello che non lo è. Quindi, l'accoppiata polipoesia/phrónesis va inquadrata proprio nell'ottica di un grimaldello sfrontato, ma abile nello scardinare le serrature degli ingranaggi mediali, individuando con opportuna tempestività l'esatta combinazione. Una ragionevolezza pratica, una guida, non casuale, che rende il poeta Können. L'essere capace, responsabile, cosciente di conseguire sempre, e in ogni caso l'essenza delle cose, assegnando a questo stato di ragionevolezza, la ragionevolezza della voce, una posizione di netta superiorità. Cambiando punto di vista, proviamo a dare uno sguardo ad altri campi, e scopriremo che tutto è in movimento, per esempio, la scienza classica (18) prima poneva l'accento sulla stabilità, sull'equilibrio, ora, nella nostra società postmoderna, tutti i livelli di osservazione sono coinvolti per cui ci imbattiamo in fluttuazioni, biforcazioni e processi evolutivi. Appunto, fluttuazioni, biforcazioni si addicono alla ricerca polipoetica che mette in crisi la poesia tradizionale e rilancia il proprio processo evolutivo all'interno di una linea gerarchicamente verticale, a differenza di quella orizzontale, già perseguita dalle precedenti, storiche esperienze. Si tratta di un insieme concentrato in continuo movimento, un tutto che va in ogni caso ripreso, o meglio riappropriato, secondo la prospettiva di un pensiero della totalità e di un pensiero della riappropriazione (19). Ciò significa che la poesia sonora deve rivendicare per sè il ruolo primario nel processo di riappropriazione delle funzioni poetiche e mediatiche. Impresa che va compiuta in ogni caso, anche con cinismo e spregiudicatezza, spingendoci se necessario, verso l'eccesso del cacofonico, del multiforme e del deforme, perché ciò funge sempre da antidoto verso la mediocrità, la superficialità e la piattezza della vita. Come questo avvenga, il campo è libero alle più impervie sperimentazioni. Il semaforo è verde. Il nostro compito s'esaurisce nello stabilire le percentuali del dosaggio polipoetico. L'atto creativo viene come conseguenza una volta dati gli estremi perimetri della percorribilità. Invertendo però i termini del discorso, e ponendoci dalla parte del ricevente, come spesso abbiamo fatto durante questo studio, non possiamo non rilevare, con amarezza, il dato oggettivo secondo cui davanti a un contenuto totale di informazione, soltanto un misero 7% viene assegnato al materiale verbale, mentre un esorbitante 93% ad elementi non-verbali. Il nostro credo resta lo stesso, non ne risulta scalfito né intimorito, "la parola orale non è mai sola" (20), perché si accompagna ai valori fàtici del performer già più volte menzionati, si avvale come supporti secondari di altri linguaggi nella nostra utopica convinzione di abbattere lo sbarramento che incontra il fluire della voce. Poiché si sa solamente quello che si ricorda, non è una novità che il pubblico sia restìo alle innovazioni e tenda ad ascoltare solo quello che conosce o riconosce. Questo non autorizza i poeti a ricalcare per esempio le orme di spregiudicati palinsesti per tv-spazzatura i cui capistruttura rendono pan per focaccia. Risulta tuttavia essere buona tattica inserire nell'atto polipoetico qualche elemento di facile leggibilità, affinché possa materializzarsi una immediata percezione su un dettaglio. Ci deve sempre essere un aggancio, uno stato di comunicazione in atto. Lo spettatore va alla ricerca di quello che gli è già noto, e in seconda battuta, preferisce una "drammatizzazione dinamica" (21), in base alla quale valore determinante assumono le immagini, sia quelle concrete che quelle veicolate dalle sonorità. Voce, corpo, immagini, luci, oggetti, abiti, mimica, creano quello che diviene essere il punto focale dell'ascolto orale, ovvero l'ambiente iconico, lo spazio scenico nel quale il performer opera per impressionare la pellicola della mente dell'audience. Se dovessimo dare un consiglio per perfezionare la polipoesia, dovremmo concentrarci con più cura nell'interstizio spaziale che esiste tra noi e l'interlocutore, creare una messinscena dove tutto si tenga in coerenza con i nostri principi e faccia colpo. Quello che conta è l'impatto psicologico sul pubblico, e noi dobbiamo essere sempre in grado di stupire, o meglio stordire e non addormentare secondo la nota formula nicciana. Tra i praticanti di spicco vanno annoverati almeno Xavier Sabater, Fernando Aguiar, Ivette Roman, Endre Szkarosi, Clemente Padin, Miroslaw Rajkowski, Rod Summers, Michael Lentz, Jaap Blonk, Anna Homler, Seiji Shimoda, Smelly, Enzo Berardi, Luisa Sax, Tomaso Binga, Massimo Mori, Giuliano Zosi, Felipe Ehrenberg, Eduard Escoffet, Mark Sutherland e il compianto Philadelpho Menezes. Ci sono molti altri performer, che pur ignorandola o facendo finta d'ignorarla, alla prova dei fatti, battono gli stessi sentieri qui indicati, perché le loro performance si basano più sul calcolo preciso che sulla spontaneità, più sulla sofisticazione elettronica che sulla povertà elementare, più sull'eccesso e sull'esuberanza che sulla semplicità (22). A conclusione di quanto affermato finora, ci sentiamo di avallare la tesi secondo la quale la polipoesia contiene le caratteristiche tipiche del sublime (23). Sicuramente appartiene alla sfera delle avanguardie, l'opera polipoetica cerca di presentare ciò che c'è d'impresentabile nel nostro mondo e termini come spettacolarizzazione, mediatizzazione ben si adattano a questa ricerca che tenta di combattere su molteplici fronti ogni giorno affinché non avvenga "la perdita dell'oggetto e la prevalenza dell'immaginario sulla realtà". Che prevalga l'immaginario, non sempre è positivo, tant'è che il nostro tempo così stressato, angosciato, frustrato, depresso e alienato "preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere" (24). Il nostro cammino non è molto cambiato, si presenta come sempre in salita, perché forse questo è proprio il nostro destino, e forse proprio per questo continuiamo a essere e a dichiararci poeti: "la poesia è l'atto che fa essere ciò che non è" (25). Non possiamo terminare questo libro attorno al quale abbiamo speso anni di duro lavoro appassionato, senza riportare un classico kôan, che è il quesito illogico usato dallo Zen per raggiungere l'illuminazione, quesito che noi spassionatamente dedichiamo alla polipoesia, "se pensi non ci sia, c'è, se pensi ci sia, non c'è". Note (1) E.Minarelli, Manifest de la Polipoesia, in AAVV Tramesa d'art en favor de la creativitat, Palazzo della Musica e dei Congressi, Valencia, 1987, p.100. Quanto scritto nel Manifesto, era stato a suo tempo valutato positivamente dal compianto Paul Zumthor che ne aveva capito il senso, anzi ci aveva più volte spinto ad andare oltre, a compattarci. Un gruppo si è creato attraverso la realizzazione di alcuni festival internazionali (Bologna, Città del Messico, San Paolo, Budapest, Montevideo, Parigi, Barcellona, Maastricht) e attraverso un consolidato circuito. Le nostre edizioni in disco, già menzionate, hanno dato la giusta spinta propulsiva a questa proposta. Vari articoli, saggi, cataloghi e antologie le sono stati dedicati. Il fenomeno esiste, lascia un segno riconoscibile, anche in funzione di nuovi adepti. Si presenta agli albori del nuovo millennio come una delle possibilità sperimentali ancora percorribili, senza correre il rischio di risultare superata, se il dialogo con i media verrà tenuto nella dovuta considerazione. Il Manifesto della Polipoesia è stato riprodotto integralmente in: Il Manifesto della Polipoesia, Tramesa d'Art, Valencia, 1987. (Catalogo) Brevi note di poesia sonora e il Manifesto della Polipoesia, A più voci, Firenze, 1989. (Catalogo, saggio) The state of poetry, the strata of polypoetry, Atticus 19, Calexico, California, 1990. (Rivista, saggio) Poesia sonora e il Manifesto della Polipoesia, Visionario 3-4, Alessandria, 1991. (Rivista, saggio) Oralità e polipoesia nell'epoca postmoderna, Il Manifesto della Polipoesia, Novi Zivot 3-4, Novi Sad, 1991. (Rivista, saggio) Canoni e classificazioni per una storia della poesia sonora nel Novecento, Face, San Paolo, PUC, 1991. (Rivista, saggio) The sound side of poetry, Firenze, Zona Archive, 1991. (Copertina, disco LP) Polipoesia como practica de la poesia del Dos Mil, Polipoesia Primera Antologia, Barcellona, SEdicciones, 1992. (Libro con audiocassetta, introduzione) Vocalità & Poesia, Reggio Emilia, Elytra,1995. (Libro) Presentazione a Baobab Italia, Baobab 27, Reggio Emilia, Elytra, marzo 1995. (Box con audiocassette) Polipoesia, Experimental-Visual Concrete Avant-guarde Poetry since the 1960s, Amsterdam-Atlanta, Rodopi,1996. (Libro, saggio) Poesia Sonora, Abbazia Benedettina, Palermo, 26 settembre1998. (depliant) Les Ambassadeurs, Marsiglia, Népe, gennaio 2000. (Catalogo) ¡Poetas en Barcelona! Juliet n.96, febbraio-marzo 2000, Trieste. (Rivista, articolo) Em Voz Alta, Poesia & Performance, Porto, Campo das Letras, 2001. (Libro) Cantarena, n.15, Genova, settembre 2001. (Rivista) Per/formare la Vita, 12 anni di un Laboratorio a Pianeta Poesia, Assessorato Cultura Firenze, Caffè Giubbe Rosse, 2005. (Fascicolo) The Word Music/Polypoetry Festival, Reykjaviik Art Museum, Reykjavik, maggio 2006. (Catalogo + CD) Il Manifesto della Polipoesia, Avanguardia, Rivista di Letteratura Contemporanea, n.31, Anno II, Roma, 2006. (2) E' opportuno ricordare che "l'introduzione del suono da parte della Warner nel 1928 impose gravi problemi di riconversione a livello di produzione e distribuzione", R.Grandi, Radio e televisione negli Stati Uniti, dal telegrafo senza fili ai satelliti, Milano, Feltrinelli, 1980, p.89. Mentre in tema di registrazione magnetica del suono, negli stessi anni, vanno segnalati sempre in terra americana, sia la costruzione di apparecchiature maneggevoli a due vie, gli walkie-talkies, sia l'aumento vertiginoso nella produzione di registratori, "in questo campo, fin dalla fine degli Anni Trenta, la Bell Telephone Laboratories, la Brush Development Company e la Armour Research Foundation avevano portato avanti la ricerca e la produzione di registratori magnetici, senza tuttavia raggiungere i risultati di fedeltà dei tedeschi", R.Grandi, op.cit., p.91. (3) Cfr. M.Griner R. I. Furnari, Otaku, Roma, Castelvecchi, 1999. (4) Cfr. http://www.3ViTre.it. Altri siti dove è reperibile materiale collegato alla Polipoesia: http://www.ubu.com {CD, Coralmente me stesso - The Manifesto of Polypoetry} - http://www.altamircave.com/polipoes.html {Polipoesia como pratica del dos mil - El Manifesto de la Polipoesia} - http://www.let.run.nl/scholar_assold/iawis/news/enc.html {E.Minarelli Polipoesia} - http://www.epn.net.co/VIIfestivalpoesia/html/visual.html {Festival Internacional de Medellin} - http://web.aec.at/lifescience/archive/en/msg00083.html {Ars Electronica Linz} - http://members.es.tripod.de/saba/attractions.html {Festivales y Congresos de Polipoesia} - http://www.geocities.com./soho/workshop/6345/links_visualpoetry.html {Polipoesia} - http://www.artepostal.org.mx/bienal/fractal.html {VI Bienal de Poesia Experimental} - http://www.cecut.org.mx/prensa/marzo99/mart10.html {Polipoesia: la poesia adquiere nuevas formas} - http://www.fut.es/~bock861/pqrst.html {Radio y mail art} - http://www.thing.net/~grist/l&d/lighthom.html {E. Minarelli Polypoetry} - http://www.txt.de/spress/vertrieb/label/3ViTre.html {Dischi di Polipoesia} - http://hurlyburly.cjb.net/ {Intervista a tutto campo a Enzo Minarelli} - http://www.swansea.ac.uk/italian/ {Saggi sul Manifesto della Polipoesia} - http://www.elcultural.com/contenidos/reportaje/040600/1.asp {Il Manifesto della Polipoesia} - http://www.exmadrid.com/~poexperimental/alsumario.htm{Il Manifesto della Polipoesia} - http://wwww.allaboutjazz.com/italy/articles/arti0601_015_it.htm {L'uso della tecnologia in poesia sonora e Polipoesia} - http://lellovoce.altervista.org {Il Manifesto della Polipoesia, videoperformance Coralmente me stesso} - (5) P.Virilio, Speed and information: cyberspace alarm!, in CTheory, http://www.ctheory.com Interessante anche registrare un'affermazione che fa pendant con quella or ora citata, e che è altrettanto vera, "le site c'est l'homme" (il sito è l'uomo), (Doc(k)s Web, serie 3, n.21-22-23-24, 1999, p.18), ovverosia, il sito Web per esistere ha bisogno della mano umana che lo crea. (6) M.Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1997, p.44. (7) Cfr. T.Labranca, Andy Warhol era un coatto, Roma, Castelvecchi, 1996. (8) A.Gomarasca-L. Valtorta, Sol mutante, Genova-Milano, Costa&Nolan, 1996, p.163. "Una musica senza contenuto non sarebbe altro che uno stimolo fisico di uno stato psicofisiologico di diletto" in M.Bachtin, op.cit., p.12, (il corsivo è nostro). Si legga anche l'intera prima parte dal titolo Ruído, silêncio (Rumore, silenzio), di Heloísa de Araújo Duarte Valente, Os cantos da voz, San Paolo, Annablume Editora, 1999, pp.29-98, dove si incontrano, tra le altre cose, la bella teorizzazione di esquizofonia (schizofonia) formulata a suo tempo dal canadese Murray Schafer, la separazione del suono dalla fonte che lo ha prodotto (p.80) e una frase di Hitler quanto mai emblematica, da collocarsi tra il rumore della politica o meglio la politica del rumore, "non avremmo mai conquistato la Germania senza gli altoparlanti" (p.81). Emblematico anche il fatto che il musicista di Toronto, Murray Schafer, dai trascorsi adolescenziali in poesia sonora, non solo si faccia vanto di averla praticata, ma dichiara di volerla ancora fare, essendo la disciplina ancora sfruttabile, cfr. nostra intervista realizzata a Città del Messico, maggio 2004. (9) A.Gomarasca-L.Valtorta, op.cit., p.164. Simili affermazioni ci riportano a formazioni pseudo-musicali del tipo degli Afrika Bambataaa, capaci di includere nei loro dischi campionamenti al di fuori di ogni logica e interminabili scratches, con missaggi di parlato, che hanno dato vita al fenomeno meglio noto come hip-hop. Cfr. Catalogo Link, Bologna, aprile-maggio 1998, Afrika Bambata, Looking for the perfect beat, 1989-1995, The Wire, 207, Londra, 2001. In ambito italiano, ricordiamo soltanto alcune performance del gruppo capitanato dal poeta genovese Claudio Pozzani nei primi Anni Novanta, mentre a livello europeo il performer francese Joël Hubaut sintetizza questa ricerca rumorica, soprattutto negli Anni Ottanta. (10) L'artista e poeta catalano usava spesso dire "poeta y poesia escenica son la misma cosa" (il poeta e la poesia-spettacolo sono la stessa cosa). (11) D.Stratos, Diplofonie e altro, in Il piccolo Hans, n.24, Bari, Dedalo, ottobre-dicembre 1979, p.85. (12) W.Burroughs J. Cage, Chance encounter, Leicester, De Montfort University, 1998, p.7. Mentre non potremmo mai concordare con un'altra famosa massima cagiana, "the highest purpose is to have no purpose", (il massimo scopo è non aver scopo alcuno). Cfr. N.Zurbrugg, The parameters of postmodernism, Londra, Routlege, 1993, p.48. (13) G. Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in AAVV, Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1997, p.17. (14) F.Bastos, Crise da razão, desconstrução, tecnologia e falência da estética, in Signos plurais, a cura di Philadelpho Menezes, San Paolo, Experimento,1997, p.118-120. (15) E.Donda, Schubert's lieder, in Il piccolo Hans, op.cit., pp.139-140. Dopo un riascolto mirato di quasi tutta la liederistica schubertiana, (sono oltre 600 quelli composti da Schubert) restiamo dell'opinione che il Lied rappresenti una tappa fondamentale del trionfo vocale. Il suo modulo spontaneo di approccio tematico senza mai scivolare apertamente nel folklore, il suo legarsi in qualche modo all'arte colta attraverso gli scritti di grandi poeti, per poi riversare il prodotto filtrato, quasi volgarizzato in funzione di larghissimi strati di consumo, lo rendono in qualche modo antesignano delle pratiche sonore, (cfr. M.Bortolotto, Introduzione al Lied romantico, Milano, Adelphi, 1984, p.31). Inoltre, il Lied insiste sulla prevalenza del cantato contro la musica strumentale, attraverso un'atmosfera musicale tesa ad evidenziare il contenuto, quasi prolungamento ideale del testo. Con le dovute proporzioni, ciò anticipa quanto da noi ripetutamente sostenuto circa il ruolo fondamentale della voce che, giustamente, relega le componenti delle altre arti, musica inclusa, ad una funzione secondaria. Ci rendiamo perfettamente conto che simile posizione ricalca le tesi degli Illuministi o meglio degli Enciclopedisti così accaniti nell'asservimento della musica verso l'esaltazione, l'intensificazione della musicalità intrinseca del linguaggio. Però non va sottaciuto che la pericolosità del concetto di fusione, alle nostre orecchie così nocivo, nasce già con Rousseau per il quale l'unione di musica e poesia significava "un potenziamento espressivo dell'una e dell'altra", (E.Fubini, L'estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, Einaudi, 1987, pp.55-56) (16) Cfr. A.Kroker, The processed world of Marshall McLuhan, in CTheory, op.cit. Crediamo che certe boutade sulla presunta totalità della poesia nascano da una sbrigativa lettura di Wagner, ideatore della Gesamtkunstwerk, l'opera totale dove tutte le arti devono collaborare ed essere fuse una nell'altra, devono tutte scomparire ed essere sommerse per riemergere nella creazione di un nuovo mondo. Saggiamente Massimo Mila, smorza gli entusiasmi, "... l'ideale - il corsivo è nostro - della fusione delle arti in una realtà superiore, ritrovamento di unità perduta ..., perseguito nella forma wort-ton-drama, dove parola e suono nascono nell'animo di un solo creatore", (M.Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, p.243.). In effetti, il presupposto utopico della Gesamtkunstwerk, poggia sulla credenza dell'origine comune di parola e musica nel linguaggio primitivo, anche se lo stesso Wagner, come omaggio estremo a tale convinzione, non utilizzerà mai un suono puro, "tutto è amalgamato, mai è concessa all'orecchio la festa di un timbro limpido, mai un flauto, mai una viola o la voce umana, ma un miscuglio di tutto questo" (Ivi, p.245). (17) H.G.Gadamer, Verità e metodo, a cura di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1985, pp.43-47, pp.346-375. Si veda anche, H.G.Gadamer, Verità e metodo 2, integrazioni, a cura di Riccardo Dottori, Milano, Bompiani, 1995, pp.275-284. Rileggendo questo saggio che è considerato uno dei più illuminanti del secolo appena trascorso, ci ha piacevolmente sorpresi l'ampia dissertazione su quella che Gadamer chiama oral poetry, nel punto culminante, afferma, "la poesia-orale è già sulla via del testo, così come la poesia tramandata attraverso la recitazione rapsodica è già sulla via della letteratura", Ivi, op.cit., p.338. Cfr. F.Bastos, Crise da razão, desconstrução, tecnologia e falência da estética, op.cit., p.118. (18) Cfr. I.Prigogine, in G.Romano, Digital touch, Juliet Photo, n.93, Trieste, giugno 1999, p.4. (19) G.Vattimo, in AAVV, Il pensiero debole, op.cit., 17. (20) D. de Kerckhove, La pelle della cultura, Genova, Costa&Nolan, 1995, p.114. (21) Ivi, p.115. (22) Cfr. Michel Giroud a proposito della XI Biennale di Parigi, in AAVV, L'Art Vidéo 1980-1999, Milano, Mazzotta, 1999, p.121. (23) Cfr. W.Welsch, La nascita della filosofia postmoderna dallo spirito dell'arte moderna, in Juliet, n.93, Trieste, giugno 1999, pp. 24-29. Si veda anche, J. F. Lyotard, Anima anima, sul bello e il sublime, Parma, Pratiche Editrice, 1995 e M. Costa, O sublime tecnológico, San Paolo, Experimento, 1995. (24) L.Feuerbach, in C.Salaris, Il movimento del settantasette, Bertiolo, AAA Edizioni, p.29. (25) P.B.Shelley, in Q.Principe, Se i legislatori fossero poeti, Il Sole 24 ore, n. 154, 7 giugno 1998, p.31. Cfr. M.Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1968, pp.449-455. Cfr. P.B.Shelley, Difesa della poesia, Roma, Coliseum, 1986. |
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